N. 0026 – 251218 – “Mai prima delle cinque!”

“Mai prima delle cinque!” Lo diceva Corto Maltese ma lo diceva anche mia nonna quando si parlava di thè. Mia cugina ed io eravamo bambini quando nel tardo pomeriggio la nostra nonnina metteva il pentolino con l’acqua a bollire sulla sua leggendaria stufa a legna. Quell’acqua di lì a poco avrebbe incontrato la bustina del thè ed entrambe sarebbero affondate in una robusta tazza marrone e gialla, mia nonna usava tazze di quel colore. Era il momento più bello della giornata perché significava che avevamo finito di fare i compiti, significava che stavano per iniziare i cartoni animati. Era però anche il momento più triste perché di lì a poco sarebbero arrivati i nostri genitori a prenderci per portarci a casa. Non che a casa si stesse male, anzi! Ma il loro arrivo metteva fine ad un momento bellissimo. L’altro ieri, per qualche motivo che non riesco a spiegare, mi sono tornati in mente quei momenti, ho provato le stesse sensazioni. Oh, non mettete in mezzo Proust, quello non ha la minima idea di quello che ho provato io l’altro giorno.

N.0025 – 131118 – Accadde a Samarcanda

Il sole stava scomparendo dietro alla Madrasa di Sher Dor che si affaccia sulla grande piazza del Registan a Samarcanda. Una ragazza stava attraversando quell’enorme quadrato con passo veloce. I suoi occhi scuri tradivano la paura di essere vista da chi non avrebbe dovuto. Shaista, così si chiamava, era fuggita dal caravanserraglio dove si era accampata la carovana dei mercanti che il giorno dopo avrebbe allestito uno dei mercati più importanti della via della seta. La famiglia della ragazza era molto semplice ed eternamente in viaggio tra la magica Venezia e la suggestiva ed immensa Cina. Shaista stessa era nata in un carro durante una delle soste che la carovana faceva in occasione dei mercati, la giovane donna non si sentiva appartenere ad alcun luogo, la sua casa era soltanto la carovana e la sua famiglia erano i carovanieri. Ma quella sera era diversa, Shaista non se lo sapeva spiegare, era quasi arrivata a destinazione: una delle torri della Madrasa di Sher Dor, Hiram le aveva detto che si sarebbero incontrati nei pressi della piccola porta vicino alla torre. Hiram, occhi scuri come la notte ed un sorriso dolce, si erano visti ad una delle feste che i carovanieri allestivano il giorno prima del mercato. Shaista ballava attorno al fuoco assieme ad altre ragazze, ma Hiram non le aveva staccato gli occhi di dosso nemmeno per un istante. Si parlarono quella sera mentre il fuoco si stava spegnendo, si baciarono quando solo la luna avrebbe potuto vederli. Erano passati alcuni mesi ma il ricordo di quella sera era rimasto scolpito nei loro cuori.
“Ti devo dare una cosa.” Le aveva detto Hiram quando si rividero quella mattina all’arrivo in città. Shaista aveva il cuore in gola per l’emozione e non riuscì nemmeno a rispondere, sorrise.
“Vediamoci alla torre della Madrasa di Sher Dor, al tramonto, vicino alla porta.” Aveva aggiunto quel ragazzo dal sorriso dolce e lei non aveva fatto che ripetere a sé stessa quelle parole per tutto il giorno.
Ecco la porta, c’è qualcuno accanto ad essa, Hiram.
“Ti ha vista qualcuno?” Chiese il ragazzo.
“No, credo di no.”
“Shaista, non riesco a credere che questo momento sia reale, se fosse un sogno sarebbe il più bello che abbia mai fatto.”
“Anche io non riesco a crederci Hiram.”
Si abbracciarono e si baciarono. La luna sorrideva da dietro la torre.
“Ho qualcosa per te amore mio.” Disse Hiram. Nel frattempo, estrasse dalla tasca un piccolo sacchetto di tela chiuso con un lacciolo. Lo consegnò alla sua amata.
Shaista teneva il sacchetto tra le mani con la stessa delicatezza di chi ha appena raccolto un uccellino caduto dal nido.
“Aprilo.” La incoraggiò il giovane sorridendo.
La ragazza aprì il sacchetto e ne estrasse il contenuto. Si trattava di un anello di metallo lucido con delle strane incisioni.
Shaista se lo infilò istintivamente all’anulare sinistro. Calzava alla perfezione.
“Domani chiederò alla tua famiglia di prenderti in sposa.” Disse Hiram.
“Sono senza parole Hiram, sono troppo felice in questo momento ma ho anche tanta paura che tutto questo sia solo un’illusione, un sogno.”
“No, è tutto vero, dammi un pizzicotto.”
I ragazzi risero ma smisero subito quando sentirono delle voci e dei passi avvicinarsi.
Erano due uomini di corporatura robusta, i fratelli di Shaista, l’avevano seguita.
“Che ci fate qui voi! Shaista! Non puoi stare qui!” Gridò minaccioso uno dei due.
La ragazza non ebbe nemmeno il tempo di rispondere perché l’altro la prese per un braccio e la strattonò trascinandola via.
Hiram si scagliò su di lui ma l’altro uomo lo spinse contro il muro facendogli battere la testa.
Il ragazzo aprì gli occhi, era mattina, si trovava esattamente dove quell’uomo lo aveva scaraventato la sera prima. La testa gli faceva molto male, faticò persino ad alzarsi. Vicino ai suoi piedi c’era un oggetto luccicante, era l’anello che aveva regalato a Shaista!
Hiram non perse tempo, si mise a correre verso il caravanserraglio, voleva trovare Shaista e portarla via con sé. Avrebbero lasciato la città se fosse stato necessario.
Una volta arrivato allo spiazzo dove si accampano le carovane prima di entrare in città, Hiram ebbe l’amara sorpresa di vedere che il caravanserraglio era vuoto. L’intera area era deserta, c’era solo un vecchio che tentava inutilmente di allontanare la sabbia dagli scalini dell’ingresso ai dormitori.
“Cerchi qualcuno ragazzo?” Chiese il vecchio.
“Cercavo una persona, ma deve essere partita stanotte con la carovana.”
Il vecchio si mise a ridere.
“Ragazzo, credo che tu abbia dormito poco. Le carovane arriveranno solo il mese prossimo, sempre che arrivino. Ne passano sempre meno per Samarcanda. Sono mesi che qui non si ferma nessuno.”
Hiram rimase immobile guardando una nuvola di sabbia sollevata dal vecchietto, quella polvere assomigliava tanto al suo cuore.
Passarono trecento anni…
Un tizio in pantaloni corti si aggirava per la grande piazza del Registan, inquieto, sotto un sole cocente. Cercava la foto perfetta, l’inquadratura unica che nessuno era mai riuscito ad ottenere. La torre! Ecco, doveva salire su una di quelle torri! Era vietato? Non importa. Basta chiedere, alle volte ti rispondono di sì anche quando dovrebbe essere no. Una porticina basta entrare e si accede alla scala che porta in cima alla torre. Ma questo che cos’è? Un anello? Che ci fa qui?

N.0024 – 120518 – Arcangelo

Arkangelo

La stazione degli autobus era affollata nonostante l’ora tarda, borse di tutti i generi occupavano il marciapiede ed un odore acre di nafta e urine permeava l’aria, doveva essere una sorta di “tradizione” perché nessuno dei presenti ci faceva caso.  La pioggia incessante produceva un sottofondo suggestivo anche ed aveva dato uno spunto a quelle persone per starsene tranquille sotto alla pensilina. C’era un uomo di mezza età che guardava il vuoto, sembrava fissare ogni singola goccia che cadeva dal cielo, ed i suoi occhi scuri erano immobili sotto la visiera di un berretto scuro di foggia sovietica, la sua postura era molto rigida, quasi militaresca, un po’ come nella celebre statua del kolchoziano e della kolchoziana che esaltava gli splendori dell’epoca comunista ormai dissolta e le cui vestigia sono visibili solo nella muffa che rivestiva le pareti di quella stazione. Era un luogo strano perché sembrava abbandonato da anni, persino le persone che lo frequentavano sembravano fantasmi, apparizioni fugaci visibili solo a pochi. I capelli biondi ondeggiavano leggermente mossi dalla brezza generata, ad intervalli regolari, dal passaggio delle corriere in arrivo, il suo sguardo era perso nel vuoto o nella noia, o forse in tutti e due. La pelle bianca ed i capelli color dell’oro suggerivano una provenienza nordica, confermata anche dal cartello in lamiera semi arrugginita che campeggiava nelle vicinanze. “Arkangelo”, poco dopo sarebbe finita la città, anzi forse era già finita. Ad un primo sguardo sembrava essere sola, uno sguardo più attento avrebbe rilevato la presenza di una sorella forse più giovane e di una madre decisamente avanti con gli anni, nessuno poteva essere sicuro di questi legami, non erano vicine, sembravano persino non conoscersi, erano separate da svariati sacchetti di un anonimo supermercato stracolmi di ogni cosa. Come una mosca curiosa che svolazza insistentemente nei pressi di un dolce lasciato incustodito, un ragazzo di nome S., poco meno che trentenne, dall’aspetto trasandato, con addosso un paio di jeans sdruciti ed una t-shirt con impressa una grande “S” maiuscola, osservava e si appropinquava alla sua bionda preda… Dopo qualche attimo di esitazione decise di colpire. “Fa piuttosto freddo stasera, poi con questa pioggia…” Disse, in inglese, pronunciando le parole come fossero l’esca appena buttata nell’acqua da un astuto pescatore. La ragazza doveva averlo sentito e sorrise leggermente, ma non rispose. “Dove sei diretta?” Incalzò il ragazzo, sempre in inglese. “Arkangelo” Rispose lei come si trattasse di una sorta di parola d’ordine. “Presa!” Pensò il ragazzo e decise di tirare quindi la lenza. “Suona come un luogo lontano!” Disse con una certa meraviglia ed ammirazione. Nel frattempo, attorno a quella ragazza si era formato il vuoto, la sorella e la madre si erano misteriosamente allontanate come se quella ragazza fosse una sorta di trappola da abbandonare in attesa della preda. La ragazza conservò lo stesso sorriso, il suo sguardo era luminoso anche in virtù dei suoi occhi di un azzurro molto intenso, accentuato forse dalle luci al neon della pensilina. Tutt’attorno si era creata una strana atmosfera, era come se quella stazione degli autobus si fosse improvvisamente svuotata, i muri bianchi, coperti di graffiti illeggibili e manifesti strappati, erano diventati un tutt’uno con il marciapiede. “Arkangelo.” Pensò il ragazzo, un luogo davvero lontanissimo, di quelli che sulle mappe sono scritti in piccolo e ci si chiede a chi diavolo può essere venuto in mente di viverci. Quegli occhi color zaffiro lo scrutavano, tutto quel continente infinito lo scrutava. Poi all’improvviso il rumore di un vecchio motore diesel irruppe in quella stazione che sembrava l’unico approdo sicuro da qualsiasi tempesta, l’unico luogo da cui tornare a casa, tutte le persone in attesa dell’autobus riapparvero, i capelli biondi ondeggiarono di lato, salirono sul pullman mischiandosi tra la folla e le buste di plastica. “Arkangelo”, così come era scritto… O forse non era mai accaduto nulla. S. mise la mano in tasca, sentì al tatto alcune bustine di plastica, sorrise, quella sera qualcuno si sarebbe divertito oppure sarebbe morto, da quelle parti non faceva molta differenza, si appoggio ad una delle colonne della pensilina ed attese il suo autobus.

N.0023 – 010518 – I Piccoli Aiutanti Di Babbo Natale

the_hands_resist_himQuello stupido uccello di legno era uscito già sette volte di fila da quellinsulsa casetta appesa al muro e per sette volte aveva ripetuto il suo verso acuto e stridulo. Attorno a quella insignificante casetta di legno cerano molti muri, spessi e robusti, tutti di colore bianco candido, due metri più in basso si estendeva un pavimento che passava sotto a tutti i muri e che andava a morire addosso ad un altro fatto di cemento grezzo, quasi gli cedesse il testimone di unimmaginaria staffetta immobile. Oltre quel piccolo litorale di cemento si estendeva un altrettanto piccolo oceano di pietruzze gialle, la chiamano “ghiaia di Sarone” o qualcosa del genere. In mezzo a quelloceano, come fosse unenorme piattaforma petrolifera, cera una griglia piena di braci ardenti su cui stavano arrostendo delle succulente cosce di coniglio. Il profumo emesso da quelle strane piattaforme si espandeva in tutto il piccolo oceano e raggiungeva anche le terre vicine, le terre abitate dai PICCOLI AIUTANTI DI BABBO NATALE. Nessuno aveva mai capito bene perché si chiamassero in quel modo così bizzarro. I piccoli aiutanti di Babbo Natale erano dei cagnolini estremamente viziati che vivevano apparentemente liberi nei giardini ordinati e ben tenuti di case bellissime. Un osservatore esterno, poco attento, che fosse passato di lì per caso e che avesse notato i piccoli aiutanti di Babbo Natale, beh, avrebbe pensato di certo che quei cagnolini erano le bestiole più felici del mondo. Quelle bestiole non necessitavano di nulla, avevano spazio per correre, cibo a volontà, acqua limpida e pura, tutta la loro esistenza si svolgeva nella più totale tranquillità, nel più totale silenzio interrotto ad intervalli regolari dal canto stonato di quelluccello che sbucava ad intervalli regolari dalla sua casetta di legno. Il silenzio, proprio IL SILENZIO, se quei cani avessero smesso di udire il battito del loro cuore non sarebbero più stati consapevoli di essere ancora in vita, finché un giorno non cominciò a diffondersi quellodore. Si trattava di un odore inebriante, provocante, una novità, qualcosa dignoto che invece di intimorire attraeva a sé i piccoli aiutanti di Babbo Natale. Un osservatore abbastanza attento avrebbe capito che lorigine di quellodore si poteva individuare in una piattaforma che si trovava oltre il muro di confine che delimitava il territorio dei cagnolini rispetto a quello che cera fuori, si trattava di un muro non molto alto sormontato da una rete metallica verde che i piccoli aiutanti di Babbo Natale non avrebbero mai e poi mai potuto superare nemmeno nei loro sogni più arditi. I piccoli aiutanti erano tutti lì come ad un appuntamento segreto che nessuno gli aveva mai dato e che nessuno aveva organizzato, erano tutti lì in fila con le zampine appoggiate sul muretto del CONFINE e con i nasini pressati nelle larghe maglie del reticolato, i loro volti erano sorridenti e pieni di una speranza che sembrava non essere mai passata da quelle parti ma che ora traspariva traboccante dai loro occhietti luminosi. Il silenzio tuttavia continuava ad imperversare finchè, allimprovviso, quasi si trattasse di una magia, quasi si trattasse di un miracolo che si stava realizzando e che per il quale nessuno aveva mai pregato. Quasi dal nulla, ecco non dal nulla, dal silenzio, esatto dal SILENZIO, una mano, la mano di un uomo si muoveva con lentezza reggendo lassù in alto quella che sembrava lorigine unica, il nucleo, di quel profumo. Gli occhi di quei cagnolini erano tutti puntati verso lalto come durante la notte di San Lorenzo in cui si cerca di individuare qualche stella cadente che realizzi un nostro desiderio. Allimprovviso la LORO stella cometa aumenta di velocità e cade su quel prato verde e ben rasato. Il silenzio, nullaltro, i piccoli aiutanti rimasero immobili poi però con cautela e diffidenza si avvicinarono a quelloggetto misterioso ma appetitoso. Un rapido scambio di sguardi, unintesa nata in un istante ma che sembrava di chi compie le stesse azioni da anni, sguardi luminosi e poi VIA! I pochi istanti la salsiccia, poiché tale era loggetto misterioso, divenne solo un ricordo ed i cagnolini si ripresentarono con i loro nasini schiacciati contro le maglie del reticolato verde. Quello strano prodigio ebbe a ripetersi. Un braccio enorme e muscoloso reggeva una forchetta che infilzava unaltra salsiccia succulenta. La salsiccia profumata, la forchetta, il braccio fino ad arrivare ad un sorriso e a due occhi scuri e luminosi. Unaltra salsiccia appetitosa atterra sul prato color verde intenso, dopo essere partita da quello strano cratere pieno di braci ardenti. I piccoli aiutanti di Babbo Natale la fecero sparire in pochi secondi, la loro vita sembrava definitivamente cambiata, migliorata. La giornata su quello strano mondo paradossalmente perfetto stava piano piano volgendo al termine. I cagnolini erano ancora lì con il nasino appiccicato alla rete, quandecco che una voce dal tono gentile ma decisamente autoritario li chiamò, non si era mai sentita quella voce eppure risultava familiare, i cagnolini come ipnotizzati si allontanarono dalla rete. Lodore sublime che poco prima aveva attirato quelle bestiole ora stava svanendo, il cratere si stava spegnendo e nessuno reggeva più una forchetta con infilzata una salsiccia. Il suono lontano di quel maledetto uccello di legno si sentiva sempre meno, non perché si fosse zittito ma solo perché nessuno ci faceva caso.

(nella foto: “The Hands Resist Him” di Bill Stoneham, 1972)

N.0022 – 200418 – AMIT

AmitJaipur, 28 Settembre 2006.

Mi chiamo Amit e abito in un piccolo villaggio tra Jaipur ed Agra, ho 11 anni e mi piace disegnare, uso pennelli fatti con pelo di scoiattolo, è pieno di scoiattoli qui, ci sono anche molte scimmie ma il loro pelo non va bene per disegnare. Era una sera come tutte le altre, umida e afosa. Tanto per cambiare non stavo dipingendo nulla di impegnativo, il solito maraja che passa con il suo corteo, ormai conosco a memoria quel dipinto l’ho fatto mille volte, non riuscirei a farlo diversamente, nemmeno una volta, nemmeno se volessi, nemmeno per diecimila Rupie… Ehhh diecimila Rupie, ad avercele! Anche diecimila Euro, quelli sarebbero ancora meglio, no, sto fantasticando troppo, meglio ritornare al mio dipinto, certo che oggi fa proprio caldo. Eccoli qua i soliti turisti, oggi hanno fatto proprio tardi, guardali lì, tutti con la loro macchina digitale, il loro cellulare nuovo, belli e puliti sempre. Appena sono entrati nella bottega l’ho capito subito che erano turisti italiani, i loro occhi si sono posati subito su di me, sul lavoro che stavo facendo, solo gli italiani hanno questa sensibilità o almeno fanno finta di averla, non importa, non fa differenza basta che alla fine della fiera ci scappi qualche Rupia per me. Strano, il mio boss non è ancora arrivato ad accogliere gli “ospiti”, non tarderà molto. Neanche detto eccolo che arriva zoppicante ma sorridente come si conviene con i turisti, adesso inizierà con la solita storiella inventata di quando è andato in Italia, vediamo quanti ci cascano stavolta. Mi viene da ridere, l’Italia, se questi turisti rompiscatole sapessero quanto è difficile e costoso ottenere un visto per entrare nel loro Paese non crederebbero nemmeno ad una parola del racconto delirante del mio boss. Qui il dipinto non va avanti se continuo a sorridere a questi debosciati che hanno avuto il coraggio e l’imprudenza di venire fino a qui. Io non le capisco queste guide, si ostinano a far venire qui ‘sti sfigati che non comprano mai niente e ficcano le mani dappertutto, ma cosa siete venuti a vedere? La miseria? Servivano otto ore di di aereo e chissà quante di pullman per venire a sentire l’odore della fame? Per sentire il suono della disperazione? Le anime vuote ci sono anche da VOI. Magari ce ne sono molte di meno, ma ci sono. E’ meglio che mi distragga dipingendo altrimenti poi non sorrido più ed il boss mi picchia. Vediamo quanti sono gli “invasori” questa sera: uno, due, tre… quattordici… Neanche pochi. Dopo qualche minuto di via vai di questi turisti ormai sudaticci sollevo di nuovo lo sguardo e noto il mio boss intento a parlare con un tizio sui trenta. Oh no! Il turista chiacchierone! Questo tizio gli farà mille domande su quello che dipingiamo qui, però…, eh dai, l’inglese lo mastica benino e non è neanche tanto sgarbato. Tempo tre minuti ed il mio boss mi farà scrivere il nome di ‘sto cretino su un chicco di riso, speriamo che abbia almeno un nome corto. Detto, fatto, questo individuo dalla camicia di marca e pieno di anelli che pare una checca si chiama Luca, quattro lettere, uno scherzo scriverlo su un chicco di riso. Scrivo il nome sul chicco di e lo passo al mio boss che a sua volta lo passa al turista inanellato, il turista sorride ed infila il cartoncino con incollato il chicco di riso nel taschino della camicia di marca, poi, come in preda al panico fugge via. Ritorna dopo qualche minuto con in mano un piccolo taccuino nero. E adesso? Cosa è saltato in testa a ‘sto pazzo? Hai il tuo bel chicco di riso con il tuo nome corto scritto sopra, non lo hai nemmeno pagato, ma cosa pensi, che io ormai sia abituato a starmene senza mangiare? Il turista si rimette a parlare con il boss, dal nulla saltano fuori dieci dollari americani, il mio boss si trasforma in uno zerbino e mette in tasca il biglietto verde, poi prende il taccuino verde e me lo passa, le pagine sono a quadretti e la carta sembra di buona qualità, ci mancherebbe, si tratta del taccuino di uno stupido turista italiano, quasi quasi me lo infilo in tasca e taglio la corda, se vado da Rama riesco a ricavarci almeno duemila Rupie, no no, meglio pensare ad altro. Ad un certo punto il turista taccuinesco, con tono gentile, mi chiede di fare un disegnino, ma che disegnino vuoi che ti faccia? Lui mi chiede di scrivere il suo nome in caratteri Hindi, il nome, sempre ‘sto nome corto, se non è narcisismo questo… Tempo cinque minuti e avrai il tuo nome corto sul tuo bel taccuino. Ecco fatto. Il turista prende il suo taccuino e osserva con attenzione il mio lavoro, gli occhi gli brillano, sorride, non sembrava un turista come gli altri, non so perché ma c’era in lui qualcosa di particolare era quasi simpatico, boh… Poi con un gesto quasi repentino mi porge di nuovo il taccuino e una penna, ma non era la solita penna degli hotel, era una vera penna. Prendo il taccuino e la vera penna e lo guardo con occhi interrogativi, lui con tono incoraggiante mi fa: “Scrivi sotto il tuo nome, non vergognarti di essere un artista, il talento di certo non ti manca.” Io lo guardo e sorrido, questo tizio è pazzo da legare, il mio nome, a chi interessa? Gli restituisco la penna ed il taccuino, lui insiste, il mio boss mi guarda storto e io scrivo il mio nome sotto a quel disegnino insulso. Restituisco tutto a quel turista psicopatico, lui rimane qualche istante ad osservare il taccuino aperto, poi si rivolge a me guardandomi negli occhi e mi ringrazia. La voce di Vikram, la guida di quella masnada di turisti, fa ripartire il tempo che sembrava essersi fermato. Il turista si allontana lentamente ed io ritorno al mio lavoro di ARTISTA.

N.0021 – 290318 – In To The Deep

 

images1038466123.jpeg– Quanto fa freddo nell’oceano?
– Dipende dalla latitudine, puoi avere temperature vicine ai 30° C vicino all’Equatore e di 2° C nei pressi dei Poli.
Il bambino annuì e ritornò a guardare fuori dalla finestra che dava sul retro del palazzo, verso una specie di giardino maltenuto. Vivere in periferia aveva i suoi piccoli vantaggi, ad esempio, non essendoci molte luci nei paraggi era possibile osservare il cielo notturno e distinguere le stelle se non c’erano molte nubi.
La mente del bambino in realtà non stava viaggiando nello spazio interstellare, non quella sera almeno, egli si trovava sul fondo dell’oceano Atlantico, in un punto imprecisato fuori da qualsiasi rotta marittima, camminava sul fondo, semplicemente, nel buio più totale, da bambini si può, guardando fuori da una finestra si può. Camminando nel buio e nel silenzio totali il bambino sentiva l’acqua sul viso, stranamente poteva respirare, anche se un po’ a fatica, non sentiva a malapena la pressione della profondità. D’un tratto sentì sotto il suo piede la presenza di un oggetto, si chinò e lo raccolse, sembrava un ciondolo o forse era un vecchio orologio da tasca, lo strinse nella mano per qualche istante, come a volerlo scaldare, poi lo mise in tasca. Il bambino non vedeva nulla in quell’oscurità, eppure percepiva la presenza di qualcuno che si trovava in quel luogo da molto tempo. Proseguì a piccoli passi sul fondo per un po’, poi decise di risalire. Ecco ora si trovava in superficie, a pochi metri di altezza, in sospensione, la luna illuminava la superficie increspata ed infinita dell’oceano, silenzio, quello che ispira le preghiere. All’improvviso tutto scomparve.
– È pronto in tavola! Corri a lavarti le mani, sbrigati!
Era la voce della mamma chiamava a raccolta la famiglia per la cena. Nel frattempo fuori aveva iniziato a piovere abbastanza forte, le gocce attraversavano come traccianti le luci delle insegne al neon dalla parte del palazzo che dava sulla strada principale. Il bambino chiuse la finestra proprio mentre alcuni metri sotto di lui passava la metro, lo stridore sferragliante dei vagoni venne si smorzò ed in casa ne entrò solo un’eco. All’improvviso un frastuono entrò violentissimo dalla finestra attraversò il vetro, senza romperlo e si schiantò contro gli orecchi dei commensali. Tutti si alzarono di scatto ed accorsero alla finestra per vedere cosa fosse accaduto. All’esterno una cabina telefonica era sparpagliata sul marciapiede, pezzi di alluminio e vetro sparsi nel raggio di dieci metri. Una ragazza dai capelli a caschetto, pallidissima e dalle labbra rosse come il fuoco, con gli occhi scuri, era stesa
a terra ed un rivolo rosso usciva dalla sua bocca confondendosi con il colore scarlatto delle sue labbra truccate, quegli occhi scuri erano spalancati ma non avrebbero più guardato la città, non avrebbero più cercato di coglierne le sfumature, le differenze, le insegne accese, quelle alle quali mancavano delle lettere che si erano fulminate. La mamma coprì d’istinto gli occhi del bambino, ma era ormai tardi, aveva già visto quello che era accaduto laggiù in fondo al palazzo.

N.0020 – 170318 – Lost In Space

1703019Recentente sono stati descretati alcuni documenti del KGB risalenti alla fine degli anni ’50 del secolo scorso secondo i quali non fu Jurij Gagarin il primo uomo a volare nello spazio nel 1961. Nei documenti descretati risulterebbe la missione di un altro cosmonauta mandato in orbita qualche mese prima di quella del militare di Klusino. Tuttavia, la sorte dell’uomo è avvolta nel mistero, o quasi. Il nome della capsula spaziale “fantasma” era Vostok 0 ed il suo pilota era il capitano collaudatore dell’aeronautica sovietica Igor Sokov. Il lancio del razzo vettore Semyorka dal cosmodromo di Baikonur in Kazakistan avvenne senza alcun problema così come la messa in orbita del Vostok. Le comunicazioni con Sokov erano buone, considerate le tecnologie dell’epoca, tutto stava procedendo alla perfezione. Secondo il programma della missione il capitano Sokov avrebbe dovuto iniziare le manovre di rientro dopo la prima ora di volo ma qualcosa non andò per il verso giusto. Le comunicazioni con la capsula si interruppero proprio nell’istante successivo in cui il cosmonauta aveva comunicato al centro di controllo l’inizio delle manovre di rientro. Alla base di Baikonur i tecnici erano scioccati e stavano facendo tutto il possibile per ristabilire un contatto con la capsula ma nulla. Non è ben chiaro che cosa fecero i tecnici a terra, non è chiaro quando decisero che era troppo tardi per salvare Sokov, non si sa nemmeno chi si prese la responsabilità di quella decisione. Ancor meno chiara è la causa di quel disastro. L’unica cosa sicura era che quel fatto sarebbe dovuto rimanere segreto per sempre. Accadde però un evento inaspettato. I tecnici della base di Baikonur non erano gli unici ascoltatori delle comunicazioni di Sokov. Due fratelli Italiani, radioamatori, erano riusciti ad intercettare le conversazioni tra il centro di controllo a terra ed il cosmonauta. I due radioamatori erano riusciti però anche dove i tecnici russi avevano fallito e quello che avevano captato era terribile.

“Controllo missione, inizio la manovra di rientro, passo!”

“Controllo missione, inizio la manovra di rientro, passo!”

“Rispondete controllo missione! Inizio la manovra di rientro, passo!”

Silenzio, fruscii

Nella registrazione si sente uno schiocco e poi un leggero sibilo

“Controllo missione! Una delle guarnizioni di tenuta ha ceduto! La capsula si sta depressurizzando! Controllo missione! Rispondete!”

“Baikonur rispondete diamine! Sto perdendo ossigeno!”

La registrazione è molto disturbata

“Oh, mio Dio, non può essere! Ma è meraviglioso! Allora, è tutto vero!”

Quelle furono le ultime parole di Igor Sokov registrate dai fratelli radioamatori, nessuno saprà mai che cosa vide il cosmonauta quando si rese conto di essere condannato a morire.

I due radioamatori, scoperti, furono “gentilmente” invitati dal KGB a consegnare loro le registrazioni di quella missione.

Dopo circa due mesi da quel tragico giorno un contadino di un villaggio nei pressi di San Pietroburgo chiamò la polizia perché nel suo podere era atterrato un oggetto misterioso. Si trattava del Vostok 0, miracolosamente integro dopo il rientro sulla Terra. Evidentemente l’orbita bassa a cui era stato lasciato aveva fatto in modo che la gravità terrestre lo avesse fatto precipitare. Esternamente il modulo spaziale era carbonizzato ma una volta aperto, ci si rese conto che all’interno era in perfette condizioni. Ma la scoperta più inquietante fu il fatto che la capsula era vuota, l’astronauta Igor Sokov era scomparso. L’unico segno della sua presenza nel modulo spaziale fu una scritta graffiata sul cruscotto che diceva “ESISTE”.

N.0019 – 090318 – L’Aquila D’Oro (1a parte)

 

062Il nonno di Marco si chiamava Giovanni, classe 1925, emigrato in Argentina poco prima della fine della Guerra. Quaranta anni di lavoro in una carpenteria metallica, era diventato bravo ed il suo capo lo aveva sempre trattato bene, poi in pensione con una bella sommetta. Nel corso degli anni si era sempre tenuto in contatto con i suoi famigliari tramite una fitta corrispondenza, di carta, quella che profuma vecchio. Poi le lettere erano diventate un modo di comunicare antiquato ma Giovanni aveva continuato, non si era mai arreso alle tecnologie moderne, tuttavia le risposte dei parenti rimasti in Italia si diradavano con il passaggio a miglior vita dei suoi cari. La vita “italiana” di Giovanni era cambiata nel corso degli anni: nipoti nuovi, sorelle che non ci sono più, tutto attraverso lettere e fotografie che lui custodiva gelosamente. Un giorno di ottobre Giovanni decise di fare una passeggiata, quattro passi in riva al mare, viveva a poca distanza dal vecchio porto. Quella mattina una strana malinconia si era impadronita di lui e così si ritrovò, senza quasi rendersene conto, ad osservare l’oceano. L’acqua del mare gli bagnava i piedi e quelle piccole onde che arrivavano al bagnasciuga sembravano invitarlo a procedere oltre, ad inoltrarsi in quell’immensa distesa d’acqua verde e azzurra. Gli occhi del vecchio osservavano l’orizzonte, oltre quella sottile linea bianca c’era la sua casa, quella vera, sembrava così vicina, gli bastava arrivare a quella linea ed era di nuovo a casa sua. Anche se erano passati tanti anni e ormai Giovanni si era perfettamente integrato nel tessuto sociale del Paese che lo aveva accolto, si era sposato ma non aveva avuto figli, si era fatto molti amici, il denaro non era più un problema, insomma aveva fatto fortuna. Nonostante tutto questo non aveva mai considerato quel Paese come casa sua. L’Argentina gli aveva dato un lavoro e lui lo aveva sempre svolto con impegno, non si era mai messo nei guai: lui aveva dato tanto all’Argentina e tanto aveva ricevuto, erano pari. Mentre l’oceano si rifletteva nei suoi occhi chiari una lacrima scese sulla sua guancia e nella sua mente si fece largo una decisione, una vera e propria idea. Giovanni non avrebbe finto i suoi giorni all’estero da emigrante. Voleva ritornare a casa sua a Cividale, voleva ritrovare i suoi luoghi, rivederli prima che fosse troppo tardi. Di tutti i parenti con cui aveva corrisposto nel corso degli anni, l’unico che gli era rimasto era suo nipote Marco, il figlio di sua sorella minore. A dire la verità Giovanni e Marco, si erano scritti poco nel corso degli anni, in pratica solo per gli auguri di Natale e Pasqua. Marco era un affermato architetto, aveva cinquant’anni, una moglie e due figli grandi che ormai avevano ognuno una famiglia propria. Un giorno Giovanni decise di scrivere a Marco, l’unico legame che gli era rimasto con la sua terra. La sicurezza che si era manifestata quando era in riva all’oceano si stava scontrando con la realtà l’anziano emigrante non nutriva molta speranza in una risposta positiva da parte del nipote. Dopo circa tre settimane Giovanni ricevette la risposta del nipote e ne fu contentissimo, era al settimo cielo. Nella lettera Giovanni manifestò al nipote il suo desiderio di ritornare in Friuli per rivedere per un’ultima volta i luoghi della sua infanzia, non sarebbe stato di peso per Marco e la sua famiglia, avrebbe pagato tutto lui. Marco accettò volentieri la proposta dello zio e così iniziò tra loro una fitta corrispondenza cartacea e telefonica. Zio e nipote si misero d’accordo per tutti i preparativi: i documenti, l’alloggio, il programma della visita, etc. Per mezzo delle lettere organizzarono tutto nei minimi dettagli. Infine arrivò la sera prima della partenza e gli occhi azzurri di Giovanni osservavano l’orizzonte, una linea sottile sopra l’oceano, lo stesso mare dal quale era arrivato molti anni prima. Il vecchio pianse in silenzio preparò subito i bagagli e partì alla volta dell’Italia, del suo Friuli.

N.0018 – 040318 – The Mooche

per the mooche I primi tepori primaverili permettevano a tutti di tenere la finestre aperte anche fino alla sera e io stavo leggendo alcune lettere che mi erano giunte al mattino da parte di Mr Andrew a proposito di quella benedetta cripta che si trova sotto alla Cattedrale di Washington. In strada la tromba di Sonny faceva da sottofondo alla mia lettura e le note di “The Mooche” di Duke Ellington si profondevano lungo tutta la via. All’improvviso un boato, il rumore sordo di un’esplosione mi fece sobbalzare e subito dopo le grida della gente che era uscita in strada a vedere cosa fosse accaduto, mi affacciai alla finestra per vedere cosa fosse accaduto, lo feci per istinto senza pensarci, sotto c’era Sonny che appena mi vide gridò: “A Gallows Route! E’ successo qualcosa a Gallows Route!” Poi fuggi di corsa verso il quartiere malfamato. Scesi anche io di corsa e mi precipitai seguendo la folla verso Gallows Route. Una volta giunto sul posto lo spettacolo non era davvero dei migliori, un’intera palazzina era stata come sventrata e quelle prospicienti avevano i vetri totalmente disintegrati. Nell’aria si sentiva un acre odore di alcool misto a quello di legno bruciato. La gente intorno a me appariva scioccata, un po’ lo ero anche io, dannazione c’era qualcosa in quel quartiere che non andava eppure mai avrei pensato che sarebbe successo una cosa del genere, dannazione ho fallito, dannazione non c’è niente di peggio di una predizione che si avvera solo a metà. Battei un pugno sul muro per la rabbia, mi feci male, del sangue sgorgava dalla mia mano ma non me ne curai di fronte a quello spettacolo di distruzione. Dovevo recuperare la mia lucidità, raccogliere le idee o almeno i cocci di quelle che una volta erano delle idee. Quel dannato becchino intanto si dava un bel da fare, c’erano state delle vittime eppure lui sembrava serio quasi dispiaciuto, che bravo simulatore! Con tutta la grana che ti ha portato questo botto! Non dovresti essere così triste, razza di sotterra morti! I pensieri si affollavano mentre seguivo distrattamente i movimenti del becchino che gironzolava freneticamente sul luogo del disastro. Eppure qualcosa non mi convinceva, che si trattasse di un’episodio doloso era lampante ma diamine perchè proprio lì? Di chi era l’edificio che è esploso che cosa si faceva all’interno? L’odore di alcool non era solo un caso… Patson! Dannazione! Quel Reverendo ha le mani dappertutto!! Ma stavolta ha fatto il botto!! A quel punto notai che quel nero figuro del becchino si era fermato in un angolo vicino ad alcune macerie e stava come rovistando tra di esse, decisi di andare a vedere che cosa stesse facendo. Notai delle macchie di sangue sparse tutte attorno a quel punto e per terra un cadavere, o meglio, quello che ne rimaneva, infatti gli arti mancavano, c’era solo il busto e la testa era mancante della parte sinistra. Mr Blake con grande professionalità cercava di adagiare alla meno peggio quei resti mortali in una bara di legno chiaro e piuttosto nodoso. Non dissi nulla e mi allontanai al più presto prima di dare di stomaco. Lo sguardo di quell’uomo però mi rimase impresso: era freddo, distaccato, nelle sue pupille si potevano quasi vedere le monete scorrere e brillare. Ad un certo punto venni come svegliato da un rumore: “Mark, qui è tutto a posto, puoi caricare la cassa sul carro, fatti aiutare da Hermann”. Era la voce di Mr Blake, il suo lavoro era svolto per ora, professionale come sempre. Poi due ragazzotti robusti vestiti di nero raccolsero la cassa e la caricarono su un carro nero piuttosto malandato trainato da un cavallo nero che a giudicare dall’aspetto sembrava piuttosto avanti con gli anni. “Mr Blake noi andiamo, viene con noi?”. Sentii queste parole e poi la risposta di Blake :” No ragazzi andate pure, tornerò a piedi”. Il carro cigolante si allontanò e Blake rimase ad osservare la zona in cui poco prima vi erano i resti di quell’uomo. Il torpore in cui ero caduto poco prima per la vista di quei resti era svanito così decisi di farmi forza e di chiedere a Mr Blake qualche informazione, mi avvicinai a lui e gli chiesi: “Avete visto che disastro? Ho visto che avete raccolto i resti di una persona, avete idea di chi fosse?” Mr Blake fece un cenno negativo con il capo, il suo volto sembrava come sconvolto eppure non era la prima volta che vedeva un corpo ridotto in quelle condizioni. Ma soprattutto che ci faceva lì con una cassa già bella e pronta? Come faceva a sapere che gli sarebbe servita? No, no, quì non c’è nulla di chiaro. Diamine! Non è così che doveva andare, non si doveva giungere a questo punto! Chinai la testa e tenetti tra le mani, dovevo essere rimasto a lungo in quella posizione perchè non mi accorsi che sul luogo del disastro vi era anche una donna di mia conoscenza. Sollevai il capo e notai Miss Brooksfield a pochi passi da me, prima non l’avevo vista ma doveva esserci stata anche lei, anche lei doveva essere arrivata poco dopo l’esplosione. Incrociai il suo sguardo e lei per tutta risposta mi diede un ceffone dicendo con una voce rotta dal pianto: “Tu lo sapevi vero?!” Il gesto della giornalista mi aveva colto alla sprovvista ma riuscii comunque a mantenere il mio autocontrollo e risposi con voce calma e sicura: “Miss Brooksfield, io so sempre tutto, è il mio lavoro, non lo dimentichi.” Miss Brooksfield sembrava come impietrita, il suo volto era pallido come un lenzuolo i suoi occhi socchiusi, il suo incedere incerto, doveva essere stato un duro colpo per lei quello, perse i sensi un attimo e io la sorressi con le mie braccia. “Miss Brooksfield! Si riprenda! Forza! Reagisca!” Le gridavo mentre la scuotevo per farla rinvenire. Non appena si riebbe Miss Brooksfield mi guardò negli occhi per un’istante e poi fuggi.

N.0017 – 250218 – The Bar

Il fumo avvolgeva ogni cosa come ovatta e conferiva agli oggetti e alle persone un’aria di effimera magia. I bicchieri vuoti sul bancone di mogano formavano una fila disordinata, unica traccia delle parole confuse che si erano materializzate poco prima. Dall’altra parte del bancone, un uomo corpulento, calvo, molto sudato, asciugava, senza molta voglia, i bicchieri appena estratti dalla lavastoviglie. Su una delle pareti accanto al bancone, in una cornice economica, l’immagine di una bambina dai lineamenti delicati. Di fronte al barista un uomo, unico avventore a quell’ora così tarda, era magro e piuttosto pallido, indossava vestiti scuri di taglio sartoriale anche se piuttosto logori, dal suo labbro pendeva una sigaretta perennemente accesa. “Fammene ancora uno.” Disse il cliente tenendo lo sguardo basso sul bancone al quale era stancamente appoggiato. “Agli ordini! Purché sia l’ultimo e tu te ne vada presto, non ho voglia di stare qui con te tutta la notte!” Rispose il barista riempiendo il bicchiere che aveva in mano. Nel locale si diffondeva una musica, un blues lento che nessuno ascoltava ma che faceva compagnia ai due uomini, come il fuoco di un caminetto acceso ignorato da tutti ma che scalda l’ambiente. L’avventore bevve un sorso dal bicchiere, non era più molto sobrio. “Sai… barista… come ti chiami barista?” Bofonchiò dopo aver appoggiato il bicchiere. “Ben.” Rispose il barista con tono distratto continuando ad asciugare bicchieri. “Ben, un nome da bonaccione… Io sono William. Ben, un nome da grassone…” Continuò il cliente con la voce alterata da almeno due whiskey di troppo, Ben gli rivolse un’occhiataccia senza rispondergli. “Beh Ben, lascia che ti racconti cosa mi è successo, poi pago e me ne vado, facilmente non ci vedremo più.” “Basta che sia breve, tempo dieci minuti, chiudo e vado a casa, aggiungici il fatto che a me della tua storia non interessa un fico secco.” Disse Ben passando un panno piuttosto consunto sul bancone cercando di evitare William che vi appoggiato. “Come vuoi Ben ma fatto sta che un po’ di tempo fa, un tizio, uno che ho incontrato in un bar che assomigliava a questo, gira gente strana nei bar, non trovi?” Ben fece un gesto eloquente con la mano e continuò ad occuparsi delle sue faccende senza nemmeno voltarsi. “Insomma ero nuovo in quella dannata città ed avevo bisogno di pubblicità per la mia attività… Ho un’azienda di onoranze funebri…” Proseguì William che stava riacquistando un’improvvisa sobrietà nonostante i numerosi whisky che aveva bevuto. Ben alle parole “onoranze funebri” si fermò, prese una delle sedie che aveva già rovesciato su uno dei tavoli e vi ci sedette. William si voltò, il fumo della sigaretta del becchino continuava ad aleggiare nel locale assieme al blues. L’uomo vestito di scuro si appoggi voltato di spalle al bancone e continuò il suo racconto. “Ero nuovo in città e volevo farmi pubblicità, così decisi di frequentare il bar che si trova nella piazza principale di questa città, un locale pieno di fumo e di whisky dove girava gente di tutti i tipi. Una sera entrai in quel locale e notai appoggiato al bancone uno strano tipo, doveva essere uno straniero anche lui perchè i suoi abiti erano decisamente troppo eleganti per un postaccio del genere, di certo non mi facevo troppe domande, per me era sufficiente lasciare qualche biglietto da visita ed aspettare che qualcuno si decidesse a farsi… vivo, in Mason Lane, dove avevo preso in affitto una specie di ufficio. All’improvviso una voce risuonò alle mie spalle: “Sei un becchino vero?!” Il tono era piuttosto minaccioso, la voce era distorta come quella di chi ha nelle vene più alcool che sangue, mi voltai, era l’uomo che avevo notato poco prima, annuii. “Sì, mi occupo di onoranze funebri, le posso essere d’aiuto in qualche modo?” Continuai cercando di mantenere il mio conseuto distacco. Il tizio si appoggio malamente al bancone e mi disse: “Vuoi sentirla una storia davvero brutta? Poi ti dirò cosa mi serve”. “Certamente signore, se la posso aiutare, volentieri” Risposi io gentilemente. “Bene becchino! Prenditi uno sgabello, un doppio Jack e ascolta bene!”. L’uomo dagli abiti eleganti inizio a parlare: “ A Baton Rouge c’è un piccolo cippo a ridosso di quel maledetto muro di Trenton Street, una piccola targa d’ottone oramai ossidata dalla pioggia e dal vento, su quella targa una scritta: “Agnese 1925 – 1926 B.M.”. I passanti camminano e non ci fanno più caso eppure fino a pochi anni prima al posto di quel cippo c’era una bambina dagli occhi neri vestita di stracci che suonava una gusla, suonava melodie tristi ma dolcissime come doveva essere stata la sua anima. Quasi tutti i giorni passava di lì un uomo dagli abiti piuttosto eleganti con una valigetta dalla forma sinuosa e dal cappello con una piuma svolazzante, ogni volta si soffermava alcuni istanti ad ascoltare le note suonate dalla bambina dagli occhi neri e sorrideva, anche la bambina sorrideva, poi l’uomo lasciava cadere un quartino nella ciotola di latta tutta ammaccata che si trovava di fronte alla bambina e se ne andava. Un giorno quell’uomo notò accanto alla bambina una bambola di pezza fatta a mano e in modo anche piuttosto grossolano ed incuriosito chiese alla bambina chi fosse quella bambolina. La bambina con la voce squillante dei suoi undici anni rispose che era Agnese e che gliela aveva lasciata un passante il giorno prima, poi continuò dicendo che quella era la sua amica del cuore. L’uomo dalla valigia sinuosa sorrise e dopo aver lasciato il solito quartino nella ciotola proseguì lungo la via accompagnato dal sottofondo malinconico della gusla della bambina. Il natale si avvicinava e tutti erano impegnati con gli acquisti e passavano davanti alla bambina che visibilmente infreddolita continuava a suonare quello strano violino, i suoi occhi scuri sembravano quasi addormentati per il freddo e per la fame. Le carrozze passavano veloci sollevando spruzzi d’acqua e neve. Una di quelle maledette carrozze ad un certo punto sembrò essere impazzita, sbandò prima da una parte e poi dall’altra, il conducente urlava a tutti di farsi da parte finchè non si udì un rumore sordo di legno spezzato, una melodia interrotta da un’improvvisa stonatura, un urlo acuto soffocato, vociare di gente. Dalla carrozza scese quell’uomo elegante con il cappello dalla piuma svolazzante, era sconvolto e si precipitò verso il punto dell’impatto dove trovò una bambina a terra con un rivolo di sangue che le scendeva tra i capelli corvini, i suoi occhi neri come la notte avevano assunto il colore opaco della nebbia. La tenne tra le sue braccia per alcuni istanti, la pioggia scendeva e la gente attonita guardava la scena senza muovere un dito. Nel frattempo qualcuno aveva chiamato i Gendarmi ed un’ambulanza, ma era tutto inutile, quando arrivarono non fecero altro che portare via quel corpicino senza vita e fare alcune domande al conducente della carrozza. L’uomo dal cappello elegante raccolse la gusla, che a parte la corda spezzata era ancora in buone condizioni, e la bambolina, poi se ne andò in silenzio. Nei giorni seguenti fece prepare da un artigiano quel cippo che ancora si può vedere a Trenton Street anche se ora nessuno ci fa più tanto caso. La gusla invece la tiene con se, ha imparato a suonarla, non è tanto dissimile dal suo violino, la tiene stretta a se e la suona quando vuole ritrovare qualche istante si serenità, quando vuole rivedere quegli occhietti neri come la notte… “E’ Agnese è la mia migliore amica”. Alla fine del racconto rimasi piuttosto allibito, evidentemente l’uomo di cui stava parlando era lui stesso, ma cosa mi avrebbe chiesto? Lo guardai fisso negli occhi, aveva smesso di parlare, c’era solo il fumo attorno a noi, tutto il resto sembrava quasi non esistere, poi come un tuono: “Becchino! Giudicami! Tu che vedi la morte ogni giorno, per te la morte è un lavoro, la morte non ti scalfisce, solo tu puoi giudicarmi!” Non sapevo come rispondere alle sue parole, era evidentemente ubriaco eppure doveva avere un grosso peso a causa di quella faccenda. “Senta signore, io non posso giudicare nessuno, io mi occupo di chi è già stato giudicato, mi dispiace” Dissi con voce gentile ma sicura. Lui mi guardò con odio e poi si accasciò sul bancone, io decisi che era il caso di lasciare quel luogo, tuttavia decisi che non appena ne avessi avuta la possibilità sarei andato a Baton Rouge.” Così si concluse il racconto di William. Ben era rimasto ad ascoltarlo silenzioso per tutto il tempo. Il becchino si voltò verso di lui e notò che aveva gli occhi gonfi di lacrime. William si avvicinò al barista e gli appoggiò una mano sulla spalla. “È tutto finito Ben, so tutto, Agnese era tua figlia, lo so, l’avevo saputo fin dall’istante in cui ho messo piede qui, ma ora non piangere più.” Ben sollevò la testa e guardò lo strano avventore, il suo viso appariva disteso e disse: “È ora?” “Sì Ben è ora, seguimi, Agnese ci attende qui fuori.” Il barista si alzò in piedi e seguì William verso la porta del locale, i due uomini uscirono dal bar, fuori ad attenderli c’era una bambina dagli occhi neri vestita di stracci che suonava una gusla, suonava melodie tristi ma dolcissime come doveva essere stata la sua anima , il fumo che si trovava all’interno seguì i due uomini all’esterno del locale e li avvolse assieme alla bambina. Tutti e tre scomparvero in una folata di vento.